Il decreto Maroni sulla sicurezza è stato firmato il 5 agosto, e quattro giorni dopo è apparso sulle plumbee colonne della Gazzetta Ufficiale. Non è un atto normativo come i tanti che l’hanno preceduto: trasforma i sindaci in sceriffi, e d’altronde anche nel Far West gli sceriffi venivano pur sempre eletti dai propri concittadini. Gonfia il potere d’ordinanza sindacale, ben oltre i limiti concessi dal principio di legalità, che in uno Stato di diritto significa primato della legge, ovvero monopolio della legge, quando entrano in gioco le libertà dell’individuo. In nome del «decoro urbano» e della «pubblica decenza» fa appello alla creatività delle amministrazioni locali, che il minuto dopo ne hanno profittato per coniugare la fantasia a una robusta dose di sadismo. E in conclusione fa esordire alle nostre latitudini una nuova specie di federalismo: il federalismo dei divieti. Insomma una multa per ogni campanile, quando si sa che l’Italia è il paese dei mille campanili, ciascuno ben distinto da quello che svetta nella collina accanto. Ma dopotutto questo giro di vite risponde sotto sotto all’esigenza di far cassa, di rimpinguare le esauste casse dei Comuni. Sicché a suo modo anticipa il federalismo fiscale, già annunziato con le prime piogge d’autunno. Nel senso che il federalismo dei divieti è fiscale con lavavetri, zingari, vu’ cumprà, prostitute, homeless, clandestini e mendicanti delle più varie risme.
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