venerdì 23 ottobre 2009

Benzina sul fuoco, il Capo del governo accusato di proteggere Cosa nostra. Il Paese piomba nell’abisso del sospetto

Stavolta le escort non c’entrano, né i festini di Villa Certosa o le serate con Apicella e l’harem di Palazzo Grazioli. Non c’entra nemmeno Veronica Lario e il suo giudizio sul ciarpame e le liste del Pdl alle europee. Stavolta si entra nella terra di nessuno, nella storia drammatica dell’Italia, negli anni delle tenebre e del fango, delle stragi e le uccisioni dei magistrati in prima linea. Stavolta non c’è solo l’onore da salvare, l’immagine da rabberciare, gli insulti da contenere, c’è sangue e affari, vita e morte, politica e mafia. Gaspare Spatuzza ha messo in mezzo Silvio Berlusconi nelle sue rivelazioni sugli anni bui, senza “se” e senza “ma”. Questo non significa affatto che le sue affermazioni sono oro colato, anzi. I collaboratori di giustizia non sono angeli, né pentiti, ma gente che ha sulla coscienza delitti, crimini, violenza. Uomini che non hanno niente da perdere e che sono capaci di vendere anche la propria madre pur di ottenere i vantaggi che la giustizia italiana concede, e non solo quella italiana, a chi l’aiuta a mettere le manette ai mandanti dei crimini efferati. Gente che verrebbe voglia di sbattere in galera e gettare la chiave, ma che devono essere usati per capire e proteggere il Paese dalle mafie. I magistrati non devono indagare, tuttavia, sulla nobiltà delle motivazioni di Gaspare Spatuzza, l’uomo che ha rivoltato come un guanto l’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio, ma cercare verifiche, conferme, indizi, prove, testimonianze che permettano di risalire alla verità e capire se e fino a che punto la storia che lui racconta sia credibile e possa aiutare gli inquirenti a disegnare la mappa del crimine organizzato e le sue alleanze, politiche ed imprenditoriali in Italia. Ciò che Spatuzza racconta mette i brividi. Se ottenesse credito la sua storia le conseguenze sarebbero di inaudita gravità. Spatuzza chiama in causa il Presidente del Consiglio e il suo più antico sodale, Marcello Dell’Utri, siciliano di Caltanissetta, da sempre braccio destro di Silvio Berlusconi nella sua prima vita, da imprenditore, e nella seconda, da leader politico. Il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e i pm Lia Sava e Antonino Di Matteo hanno raccolto le dichiarazioni di Spatuzza il 6 ottobre, dopo che lo stesso si era accusato di avere portato la vettura piena di tritolo in Via D’Amelio il 19 luglio 1992, provocando la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. I magistrati inquirenti avrebbero accertato la veridicità del racconto con il quale Spatuzza si autoaccusa, accreditandosi, così, come collaboratore affidabile. E’ infatti grazie a questa confessione – è lo stesso collaboratore a spiegarlo – che ha potuto raccontare il resto. Alla domanda del pm che gli chiede conto del suo silenzio su questi fatti, risponde: “Intendevo prima di tutto che venisse riconosciuta la mia attendibilità su altri argomenti e poi riferirne, sia per ovvie ragioni inerenti la mia sicurezza sia per non essere sospettato di speculazioni su questo nome nella fase iniziale…” Spatuzza, come altri pentiti, sono bombe ad orologeria, esplodono quando è il momento, ed il momento sono loro a deciderlo. Si trasformano in kamikaze se la causa lo pretende o i vantaggi sono consistenti. Perciò le loro affermazioni, i loro ricordi devono essere vagliati con grandissimo scrupolo.
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