Brighton 1991, Conferenza internazionale sulle reti neurali: il professor Igor Aleksander, dell’Imperial College di Londra, uno dei pionieri nello studio delle reti neurali, sta illustrando ad una platea incuriosita degli strani esperimenti. Ad un certo punto una giornalista, desiderosa di sintetizzare in una parola quello che sta ascoltando, si alza e chiede in modo un po’ impertinente: “Professore, sta forse parlando di coscienza artificiale?”. “Non lo dica - risponde Aleksander - altrimenti mi tagliano i finanziamenti!”. Nasce così, quasi per caso, il termine “artificial consciousness” e nonostante i timori iniziali di Aleksander, che lo fa subito suo, comincia a diffondersi nella comunità scientifica, sollecitando continui dibattiti tra filosofi, neurobiologi, studiosi di bioingegneria e intelligenza artificiale. Alcune questioni si pongono immediatamente. Qual è la natura della coscienza? Il problema della coscienza può avere una soluzione scientifica? Può essere studiato come un fenomeno reale nel mondo reale? Quali sono i modelli della coscienza? E ancora: la coscienza “funziona” nel produrre un determinato comportamento? Gioca un ruolo attivo nel pianificare e controllare le azioni di un agente artificiale o si tratta di un epifenomeno legato al processo, che non influenza il processo stesso? Ne parliamo con Antonio Chella, professore ordinario di robotica all’Università di Palermo, promotore di una rete europea di eccellenza per lo studio della coscienza artificiale, nonché editor, insieme a Riccardo Manzotti della Università IULM di Milano, del libro “Artificial consciousness” (Exeter, Imprint Academic).
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