mercoledì 25 maggio 2011

Quante sorprese con il dialetto a scuola

di SALVO FICARRA e VALENTINO PICONE

Ci sono tre categorie di siciliani: quelli che non parlano il dialetto perché fanno finta di non saperlo parlare, e di solito frequentano solo la crema della crema della crema della società... li potete riconoscere perché nei pressi del loro naso si percepisce una puzza asfissiante. Poi ci sono quelli che parlano il dialetto solo per vezzo, appartengono a classi sociali medio-alte e vogliono dimostrare ai loro interlocutori che, nonostante il successo ottenuto nella vita, sono rimasti figli del popolo... li potete riconoscere perché sotto il loro naso c'è una puzza fastidiosa, pari al loro dialetto usato a orologeria. Infine ci sono quelli che parlano solo il dialetto perché non conoscono altro modo di comunicare con i loro simili... li riconosci perché intorno a loro c'è una puzza che profuma di mercatini, di vicoli, di pesci, di frutta, di pannolini cacati e di Sicilia.
Inoltre ci sono le sottocategorie: quelli che lo parlano solo quando si arrabbiano. Quelli che lo parlano solo con i maschi e mai con le femmine. Quelli che, per non fare sentire la cadenza siciliana, parlano con la "dissione".
E infine quelli che il dialetto non lo parlano mai, ma è come se lo parlassero sempre: "Veeero?", "Ti giuuuro", "Cioèèè", "Ma che mi stai diceeendo?". Insomma il dialetto - e il modo in cui lo si usa - rappresenta la nostra carta d'identità: nel dialetto e nelle sue inflessioni c'è la storia di un popolo e delle sue radici.
A tal proposito, nei giorni scorsi l'Assemblea regionale ha approvato una legge che fa diventare il dialetto siciliano una materia scolastica a tutti gli effetti, esattamente come l'italiano, l'inglese o il francese. Ci saranno quindi libri di testo; compiti in classe; gli studenti verranno interrogati, giudicati, e se è il caso abbocciati.
È proprio vero che i tempi cambiano. Solo pochissimi anni fa, infatti, la situazione era diametralmente opposta. Molti di voi ricorderanno le timpulate prese a scuola per non aver parlato un italiano corretto. Chi di noi - interpellato dalla professoressa - non si è cimentato in traduzioni dal siciliano all'italiano dall'esito drammatico: "Professorè, pozzu andare in bagno"; "Professorè, ho stato male e non ho potuto studiare. Cè lo giuro vero (come se esistesse anche un giuramento falso)".
E giù timpulate della professorè. Tutto questo accade perché noi siciliani formuliamo i pensieri in siciliano, e poi li dobbiamo tradurre in italiano. Farci capire dal resto del mondo, quindi, a noi comporta sempre una sforzo enorme e un'infinità di timpulate.
Continua ...

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