di AMDuemila
Il giallo del mancato rinnovo, a novembre del 1993, dei provvedimenti di carcere duro per 334 mafiosi è stato al centro della deposizione di Sebastiano Ardita, magistrato, per 10 anni direttore generale dei detenuti e del trattamento al Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria, al Processo Mori.
Rispondendo alle domane dei pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, il magistrato ha ricostruito l'iter che andò in senso del tutto opposto agli intendimenti di Amato che propose nell'estate del '92 l'ampliamento del regime di carcere dure, sia pure in forma attenutata, a circa 5 mila detenuti nelle carceri italiane.
Il giallo del mancato rinnovo, a novembre del 1993, dei provvedimenti di carcere duro per 334 mafiosi è stato al centro della deposizione di Sebastiano Ardita, magistrato, per 10 anni direttore generale dei detenuti e del trattamento al Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria, al Processo Mori.
Rispondendo alle domane dei pm Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, il magistrato ha ricostruito l'iter che andò in senso del tutto opposto agli intendimenti di Amato che propose nell'estate del '92 l'ampliamento del regime di carcere dure, sia pure in forma attenutata, a circa 5 mila detenuti nelle carceri italiane.
"In 140 casi - ha spiegato Ardita - si trattò di provvedimenti dovuti, mentre la mancata conferma di 334 di altri decreti non fu preceduta da alcuna istruttoria e arrivò il primo novembre del '93. Furono consultati alcuni organi di polizia e la procura di Palermo, che ebbe la richiesta di informazioni solo il 29 ottobre, sabato e vigilia di un ponte festivo. L'ufficio palermitano rispose però a vista sconsigliando la 'non proroga'. Gli organi di polizia risposero, invece, molto tempo dopo. Il risultato fu che i 41 bis furono effettivamente revocati".
L'ex dirigente del Dap, ora rientrato alla Procura di Catania, ha ricordato, inoltre, la lettera con cui, sempre nel '93, un gruppo di familiari di detenuti al 41 bis chiese con toni minacciosi all'allora capo dello Stato Scalfaro un attenuazione del regime carcerario duro. “La lettera - ha detto - era indirizzata a una serie di soggetti che poi direttamente o indirettamente sarebbero stati oggetto di attentati: da Maurizio Costanzo, al Papa (colpito, secondo il teste con la bomba a San Giovanni in Laterano), al vescovo di Firenze, città poi scossa dalle bombe dei Georgofili”. Infine il teste ha raccontato un episodio, che indirettamente riscontrerebbe una notizia data da Massimo Ciancimino. Dopo l'arresto del boss Bernardo Provenzano la stampa pubblicò un articolo in cui si sosteneva che il figlio maggiore di Totò Riina, Giovanni, aveva commentato duramente l'arrivo del padrino di Corleone nel suo stesso carcere: quello di Terni. Ciancimino avrebbe raccontato la cosa, appresa da un uomo dei Servizi, ad un giornalista che la pubblicò. Ma la notizia, poi verificata da Ardita, che aveva deciso di mandare Provenzano nel carcere umbro, si rivelò falsa. Il teste ha ricordato un suo carteggio con la polizia penitenziaria in cui il Gom faceva pressioni per mandare il boss nell'istituto di pena de L'Aquila. Indicazione che il Dap, invece, non osservò dal momento che in Abruzzo era detenuto nello stesso carcere il boss Piddu Madonia e quindi un contatto tra i due capimafia sarebbe stato possibile, ma che, rivista alla luce anche dell'articolo sulla falsa reazione di Riina jr, può far pensare a una manovra volta a determinare la sede carceraria del padrino di Corleone. Rispondendo alle domande del legale di Mori, Basilio Milio, e del presidente Mario Fontana, l'ex capo dell'ufficio detenuti non ha saputo indicare chi potesse avere questo interesse e chi potesse avere manovrato per il trasferimento di Provenzano in un altro carcere.
L'ex dirigente del Dap, ora rientrato alla Procura di Catania, ha ricordato, inoltre, la lettera con cui, sempre nel '93, un gruppo di familiari di detenuti al 41 bis chiese con toni minacciosi all'allora capo dello Stato Scalfaro un attenuazione del regime carcerario duro. “La lettera - ha detto - era indirizzata a una serie di soggetti che poi direttamente o indirettamente sarebbero stati oggetto di attentati: da Maurizio Costanzo, al Papa (colpito, secondo il teste con la bomba a San Giovanni in Laterano), al vescovo di Firenze, città poi scossa dalle bombe dei Georgofili”. Infine il teste ha raccontato un episodio, che indirettamente riscontrerebbe una notizia data da Massimo Ciancimino. Dopo l'arresto del boss Bernardo Provenzano la stampa pubblicò un articolo in cui si sosteneva che il figlio maggiore di Totò Riina, Giovanni, aveva commentato duramente l'arrivo del padrino di Corleone nel suo stesso carcere: quello di Terni. Ciancimino avrebbe raccontato la cosa, appresa da un uomo dei Servizi, ad un giornalista che la pubblicò. Ma la notizia, poi verificata da Ardita, che aveva deciso di mandare Provenzano nel carcere umbro, si rivelò falsa. Il teste ha ricordato un suo carteggio con la polizia penitenziaria in cui il Gom faceva pressioni per mandare il boss nell'istituto di pena de L'Aquila. Indicazione che il Dap, invece, non osservò dal momento che in Abruzzo era detenuto nello stesso carcere il boss Piddu Madonia e quindi un contatto tra i due capimafia sarebbe stato possibile, ma che, rivista alla luce anche dell'articolo sulla falsa reazione di Riina jr, può far pensare a una manovra volta a determinare la sede carceraria del padrino di Corleone. Rispondendo alle domande del legale di Mori, Basilio Milio, e del presidente Mario Fontana, l'ex capo dell'ufficio detenuti non ha saputo indicare chi potesse avere questo interesse e chi potesse avere manovrato per il trasferimento di Provenzano in un altro carcere.
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