Lo denunciano Cgil, Cisl e Uil: il governo ha deciso di tagliare fondi e investimenti ai porti italiani, una delle risorse dell’economia nazionale. È una scelta che va in senso contrario a quanto fa il resto d’Europa, dove si aiuta il settore per giungere preparati alla fase successiva della crisi economica. Trieste e Genova nella ghigliottina, mentre le compagnie portuali rischiano il fallimento e il traffico merci va in tilt.
Era l’élite della classe operaia. I lavoratori portuali italiani fra gli anni Sessanta e Settanta rappresentavano la punta di diamante di un mondo, quello del lavoro, in piena trasformazione. E sono stati, con l’arrivo della concertazione e con la stretta delle privatizzazioni, una delle categorie più danneggiate, che ha subito conseguenze ben più profonde e gravi di tante altre. E soprattutto prima. In particolare a “crollare” è stato l’insieme delle compagnie portuali, passate da soggetti collettivi di lavoro di natura prettamente pubblica a imprese a tutti gli effetti.E soggette a norme, vincoli e liberalizzazioni che ne hanno totalmente snaturato sia la funzione (quella del servizio di “banchina pubblica”, ovvero servizio di carico e scarico delle merci in un porto non privatizzato) sia quella “istituzionale” passando da soggetto di mutuo soccorso fra lavoratori a imprese (Cooperative Spa). Per capire quanto sia stata profonda questa trasformazione basti pensare che la più grande delle compagnie italiane, quella di Genova, è passata dall’inizio degli anni Novanta a oggi da 6.000 a 1.000 lavoratori.
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