Man mano che i tasselli si congiungono l’atmosfera di quel terrificante giugno 1992 di Palermo diviene sempre più cupa ma i fatti, invece che mettere in fila verità, suscitano nuovi dubbi, sollecitano altri interrogativi, spalancano buchi neri. Questa è la mafia, questa è la Sicilia: la realtà affossa la verità piuttosto che suggerirla. Dopo 17 anni nel corso di un programma televisivo – la qualcosa è inconcepibile – un ex ministro della Repubblica, Claudio Martelli, racconta un episodio ignoto e di indubbio interesse per le indagini sulle stragi di Palermo e, in particolare, sul sanguinoso attentato di Via D’Amelio in cui perdettero la vita Paolo Borsellino e gli agenti di scorta.
Dopo 17 anni è stato possibile avere la prova che Paolo Borsellino seppe della trattativa fra lo Stato e Cosa Nostra per il tramite dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che ne era il mediatore, perché gli fu riferito tutto da Liliana Ferraro, vice di Giovanni Falcone presso il Ministero della Giustizia. E’ assai probabile che la Ferraro abbia rivelato ogni cosa il 25 giugno lo stesso giorno, forse nella stessa circostanza, in cui il colonnello dei Ros, Mario Mori, incontrò Paolo Borsellino, ricevendo probabilmente notizie su ciò che stava avvenendo. I colleghi di Borsellino hanno riferito in passato quanto fosse turbato quel giorno, uno stato d’animo del resto noto a tutti dal momento che nel corso di un suo intervento – era il trigesimo della morte di Falcone e era in corso una manifestazione per ricordarlo alla Biblioteca comunale di Palermo – Borsellino disse che ormai la sua sorte era segnata, sarebbe stato ucciso. Dopo la sua morte sarebbe arrivata una informativa ad Antonio Di Pietro, proveniente dai Ros, nella quale l’ex magistrato, oggi leader dell’Idv, veniva avvertito di essere nel mirino delle cosche, la terza vittima dopo Falcone e Borsellino. Quest’ultimo, però, non aveva certo bisogno della informazione dei Ros per sentirsi in pericolo.
Antonio Di Pietro fu messo in aereo immediatamente e spedito in Costarica Paolo Borsellino rimase a Palermo e non vennero usate le precauzioni e le cautele necessarie per evitare che Cosa nostra portasse a termine ciò che aveva deciso di fare. Borsellino non avrebbe rinunciato all’indagine nemmeno con una pistola sulla schiena, questo è indubbio - gli avevano ammazzato l’amico più caro ed era la memoria storica degli eventi – e quindi rimase al suo posto, affidandosi ad uno Stato che avrebbe dovuto proteggerlo e non fu capace di farlo. Già, capace. Forse lo sarebbe stato capace, se avesse voluto. Come si fa a non sospettare che l’intrigo lo stava uccidendo e che attorno a Borsellino non ci fosse una cintura protettiva senza falle?
Volevano uccidere Di Pietro, dunque. Non solo Falcone e Borsellino. Perché Di Pietro non ne ha mai parlato?
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