mercoledì 1 febbraio 2012

Parlamentari: vietato pagare i parenti. Perché, prima si poteva?


Senato
Il Senato (Lapresse)
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di Riccardo Galli

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ROMA – “Non saranno ammesse al rimborso le somme a qualunque titolo erogate al coniuge, al convivente e ai parenti ed affini del senatore entro il quarto grado”, recita una specifica della nuova normativa che regola il “contributo di supporto spettante ai senatori”. Cioè quei circa 4mila euro che ogni senatore della Repubblica ha a disposizione per collaboratori e simili spregiativamente e sbrigativamente chiamati “portaborse”. Senatori e deputati fino a ieri, e anche oggi, quei quattromila euro circa li ricevono brevi manu dalla rispettiva Camera e poi, se e quanto vogliono, ci pagano i collaboratori. Da domani solo una metà della cifra, dei 4.000, sarà messa in mano ai parlamentari, l’altra metà sarà loro pagata solo dopo “pezza” d’appoggio giustificativa, insomma la ricevuta, la documentazione di spesa effettuata.
E qui arriva la “specifica”: niente soldi ai parenti. D’ora in poi. Perché, prima si poteva? Dal sopravvenuto divieto si evince che sino a ieri gli eletti a palazzo Madama, e a Montecitorio per analogia, potevano assumere e stipendiare figli, mogli, conviventi e quant’altro. Stabilire poi che la norma vale sino al quarto grado di relazione, lascia presupporre che sinora siano stati assunti e sussunti negli staff parenti anche lontani, in fondo con 4mila euro si può rendere meno dura la vita alla famiglia, sia pure allargata.
Sembra incredibile eppure appare evidente che così deve essere: sinora i senatori hanno avuto la possibilità di retribuire, pagandoli con soldi pubblici, figli, mogli e cugini. E se poi si è sentita la necessità di inserire una norma che vietasse questa pratica, è evidente che la possibilità non deve essere rimasta solo teorica. A meno che chi ha scritto la “specifica” non sia stato particolarmente e malignamente diffidente, spinto a stendere il divieto da una sorta di “conoscenza dei suoi polli”. Che l’etica non mettesse un freno ad una simile, definiamola ineducata abitudine, non stupisce poi molto.
Stupisce però, e questo sì molto, che il regolamento del Senato permettesse che questo avvenisse. Chi lavora nel pubblico sa bene che, quando si firmano contratti, viene chiesto se per la stessa azienda/struttura lavorano dei parenti. E se questa fattispecie sussiste in alcuni casi viene preclusa la possibilità di essere assunti e stipendiati. In Senato invece era lecito e consentito retribuire direttamente il figlio, o almeno non era vietato. Al papà 5mila e passa euro di “stipendio base”, e al figlio 2/3 mila assegnati dal papà stesso, ma pagati da noi.
Le nuove disposizioni che riguardano il “contributo di supporto spettante ai senatori” stabiliscono ora che questo sia sostituito da un rimborso spese, che rimane dello stesso importo cioè 4180euro, che sarà però ora suddiviso in due parti di 2090 euro. Parti che saranno erogate l’una ai gruppi parlamentari di appartenenza e l’altra direttamente ai senatori.
A differenza che in passato da ora le spese dovranno tassativamente essere indicate e dovranno rientrare in una di queste quattro categorie: spese per collaboratori, consulenti, ricerche; spese per la gestione di un ufficio, quali affitto di locali e relative utenze, acquisto o locazione di beni strumentali; spese connesse all’uso di reti pubbliche di consultazione dati; spese per convegni e sostegno dell’attività politica. Dal che si desume ancora che prima si potessero spendere i suddetti 4mila euro senza bisogno di spiegar come. Più che di tagli ai costi della politica sembra che, forse comprensibilmente, si stia tentando prima di tutto di rendere presentabili le suddette spese.

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