mercoledì 4 dicembre 2013

Allarme della London School of Economics: “Non rimarrà nulla dell'Italia”

Nel giro di 10 anni del nostro Paese non rimarrà più nulla. O quasi. E' la conclusione catastrofica cui giunge nella sua analisi il professore Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science (LSE). Che cosa ci sta portando alla dissoluzione e all'irrilevanza economica? Una classe politica miope che non sa fare altro che aumentare le tasse in nome della stabilità. Monti ha fatto così. E Letta sta seguendo l'esempio. Il tutto unito a una "terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa".
L'ANALISI DI ORSI
“Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà.
Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo. Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione.
Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce. Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori.
La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. Di conseguenza , l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa.
L’Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell’UE e uno dei più alti al mondo. Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese. Non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale: un grande flusso di aziende italiane si riversa nella vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli. A un recente evento organizzato dalla città svizzera di Chiasso per illustrare le opportunità di investimento nel Canton Ticino hanno partecipato ben 250 imprenditori italiani.


La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. Coloro che producono valore, insieme alla maggior parte delle persone istruite è in partenza, pensa di andar via, o vorrebbe emigrare. L’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri Paesi più organizzati che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente, addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia.
Continua ...

L'ETÀ PER LA PENSIONE: UNA NUOVA STANGATA!


La notizia potrebbe non destare scalpore su televisioni e giornali, intenti a seguire le vicende personali degli esponenti del Governo. Siamo sicuri però che farà discutere (e non poco) i lavoratori, soprattutto se vicini alla tanto agognata pensione!

Dal primo gennaio 2014 infatti scatta l'aumento dell'età per la pensione per le diverse categorie, come previsto dalla tanto criticata riforma del lavoro targata Elsa Fornero. Vediamo ora nel dettaglio chi  e come sarà colpito dai nuovi provvedimenti.

Le donne occupate nel settore privato dovranno maturare 63 anni e nove mesi di età per ottenere la pensione di vecchiaia, con un aumento di un anno e mezzo rispetto alle norme in vigore ad oggi. Se non faranno in tempo ad andare in pensione entro il 2015 le donne dipendenti dovranno raggiungere addirittura 65 anni e tre mesi. Per quanto riguarda le lavoratrici autonome o che aderiscono alla gestione separata Inps invece l'attesa per la pensione aumenterà di un anno, con 64 anni e nove mesi di anzianità richiesta. Anche per queste lavoratrici dal 2016 scatterà un ulteriore aumento che porterà l'età per la pensione di vecchiaia a 65 anni e nove mesi.



Buone notizie (si fa per dire) invece per gli uomini: non cambiano i requisiti per il pensionamento nel 2014, anche se un nuovo scalino è previsto per il 2016, quando ci sarà un nuovo adeguamento in linea con la speranza di vita. Aumenta la speranza di vita ma diminuisce quella per la pensione anche per i dipendenti del settore pubblico: non cambiano i requisiti per la pensione rispetto alle norme in vigore per quest'anno. I cosiddetti "statali" andranno in pensione fino al 2105 con 66 anni  e tre mesi di età, ma nel 2016 scatterà anche per questa categoria un ulteriore aumento dell'età.

Per il 2014 la pensione anticipata per il raggiungimento degli anni di contribuzione aumenta di un mese per gli uomini (si passa da  42 anni e cinque mesi a 42 anni e mezzo per gli uomini), mentre per le donne sarà necessario aver lavorato per almeno 41 anni e mezzo, quindi per un mese in più rispetto a quanto ad oggi in vigore.

Ulteriori aumenti dell'età della pensione sono previsti per il 2016, anche siamo sicuri che nessuno potrà dormire sonni tranquilli, in quanto quello delle pensioni si conferma il settore più tartassato da tasse e nuove norme (ovviamente peggiorative).