Glossario
Nell'età della disuguaglianza, i progressisti faticano a pensare una via d'uscita dalla crisi a sinistra. In vista delle cruciali partite elettorali del 2015, serve un nuovo abbecedario che definisca le sfide del futuro riformista. La nostra selezione è limitata, arbitraria e discutibile. Ma speriamo di una qualche utilità per rilanciare il temuto dibattito. Articolo pubblicato su pagina99we del 25 ottobre 2014
In principio, ovviamente, era il Verbo. E il verbo era quello di Carlo Marx. Il socialismo scientifico elaborato dal filosofo di Treviri non lasciava spazio a dubbi. Il processo dialettico che muoveva la storia avrebbe inevitabilmente portato alla caduta del capitalismo, abbattuto dalle sue stesse contraddizioni.
Non era neanche iniziato il Novecento però, e già la storia suggeriva di rivedere alcune certezze. La lotta di classe non si inaspriva, anzi – annotò Eduard Bernstein, un altro pensatore tedesco. Il capitalismo non aveva generato «i suoi seppellitori». L’economia aveva iniziato una nuova fase di espansione. La socializzazione dei mezzi di produzione poteva essere certo un validissimo sol dell’avvenire, ma la rivoluzione non era alle porte. L’importante era iniziare a riformare poco a poco le cose perché «il movimento è tutto, il fine nulla». Si aprì il dibattito. Non si è mai concluso.
«Il riformismo – diceva il fondatore del partito socialista italiano Filippo Turati – è come una nevicata meravigliosa. Ogni fiocco di neve è una piccola conquista concreta, ma tanti fiocchi provocheranno una valanga, che cambierà il mondo e porterà un progresso profondo». Su come far partire la valanga però, e sulla qualità dei fiocchi, ci si accapiglia da oltre un secolo.
Lo stesso Carlo Marx è morto, certo, ma mica tanto. Non si affaccerà al pensatoio di Renzi, che non vuole sentir più parlare di operai e padroni e non disdegna la vicinanza degli uomini della finanza, presenti in gran spolvero alle Leopolde di ieri oggi e domani. Forse si vedrà poco anche nei cortei grandi e piccoli dell’orgoglio Cgil, dolenti per le piaghe delle crisi industriali, prima ancora che per il “tradimento” – vero o presunto – sull’articolo 18. Ma certo è vivo e vegeto, ai piani alti delle élite europee. Dove hanno importato ufficialmente, dai libri degli economisti, una formuletta impronunciabile. Nawru.
Nawru sta per Not accelerating wage rate of unemployment ovvero il tasso di disoccupazione giusto, quello che non fa salire i salari tenendo così ancorata l’inflazione. Non è un numero astratto, che resta lì sulla carta: diventa uno dei parametri con cui a Bruxelles valutano i Paesi europei. Un tasso di disoccupazione alto aiuterebbe a tenere bassi i salari (e dunque competitivi i Paesi), per l’effetto dei disoccupati che premono sul mercato del lavoro, mentre viceversa un tasso di disoccupazione troppo basso avrebbe lo sgradevole effetto di far aumentare i salari, dicono gli inventori della formula. Marxisti inconsapevoli: la stessa funzione, nel linguaggio del filosofo di Treviri, la svolgeva «l’esercito industriale di riserva».
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http://www.pagina99.it/news/politica/7824/Quanto-e-complicato-dire-qualcosa-di.html
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