venerdì 24 luglio 2009

Dopo 13 anni, oggi Riina interrogato

L’aveva detto, il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, l’altro giorno, dopo il messaggio trasmesso attraverso il suo legale: «Totò Riina vuole dirci qualcosa. E’ abbastanza chiaro che quel suo messaggio era diretto a noi, ai titolari delle indagini sulle stragi: i magistrati di Caltanissetta». E così, oggi, quei magistrati che indagano sulle autobombe di Capaci e di via D’Amelio andranno a trovarlo nel carcere di Opera, Milano. Chissà se questa volta il capo dei Corleonesi, Totò Riina, risponderà alle domande del procuratore Lari, dei pm Domenico Gozzo e Niccolò Marino (accompagnati dai funzionari della Dia). Chissà se vorrà spiegare, fornire forse anche degli elementi a sostegno della sua accusa. Venerdì, il suo legale, l’avvocato Luca Cianferoni comunicò il suo pensiero: «La strage Borsellino l’hanno fatto loro». Insomma lo Stato. Chissà se oggi vorrà spiegare quel suo riferimento alla trattativa tra Stato e Cosa nostra: «Quella trattativa è stata fatta sopra di me». Insomma, lui è stato la vittima designata, l’agnello sacrificale. Chi ha trattato e per conto di chi? L’avvocato Cianferoni ha escluso che Riina pensi che a venderlo sia stato Bernardo Provenzano. Sono passati tredici anni dall’ultima volta di Riina di fronte ai magistrati. Era il 22 aprile del 1996, aula bunker di Firenze. L’allora procuratore nazionale antimafia Pierluigi Vigna, e quello di Palermo, Giancarlo Caselli, provarono a farlo parlare. Neppure il tempo di finire la prima domanda che Totò Riina interruppe Vigna: «Dottore, la prego si fermi lì...». Niente da fare: «Lei ha sbagliato persona... la prego di risparmiare il fiato... mi faccia il piacere io non parlo, io ho il diritto di non rispondere... non vorrei fare il maleducato...». Fu un tentativo andato a vuoto. Non che il Capo dei Corleonesi, in questi anni, non abbia mai esternato. Lo ha fatto attraverso il suo legale, l’avvocato Cianferoni. O direttamente, dalle gabbie dei processi, rispondendo alle domande dei presidenti delle Corti d’assise. Per scagliarsi contro i pentiti. Come quella volta a Reggio Calabria, nel corso del processo per l’omicidio del giudice Scopelliti, che doveva sostenere l’«accusa» in Cassazione contro Cosa nostra. Allora sputò veleno contro i «comunisti», contro Luciano Violante e Giancarlo Caselli. I pentiti, erano il suo tarlo: «Sono gestiti, vanno a braccetto, non portano riscontri».
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http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200907articoli/45822girata.asp

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