domenica 30 novembre 2008

La strana disfatta

È importante ascoltare quello che dicono gli indiani, quando si parla degli attentati di mercoledì a Mumbai (ex Bombay). Quel che essi vivono è un 11 settembre: un bivio egualmente costernante. Uno scoprirsi massimamente potenti, e massimamente vulnerabili. Così è per scrittori come Amit Chaudhuri o Suketu Mehta, autore di Maximum City. Così per Amartya Sen. Meno perentori degli occidentali, essi vedono mali interni e esterni al tempo stesso. Mali interni perché la modernizzazione (l’India incredibile della pubblicità bellissima che appare a intervalli regolari sulla Bbc) suscita rancori non illegittimi nelle minoranze musulmane, e arroganti estremismi negli indù. Mali esterni perché i terroristi s’addestrano spesso in Pakistan, nutrendosi d’un conflitto tra India e Pakistan che non scema. Secondo Sen urge affrontare ambedue le cause, ma non con i mezzi del 2001: il premio Nobel dell’economia non parla di guerre e civiltà. Dice che «la priorità è ristabilire l’ordine e la pace, per evitare effetti negativi sullo sviluppo economico» indiano. La prova somiglia all’11 settembre, ma i dubbi sulla risposta crescono. La via americana ed europea non ha curato i mali, ma li ha acutizzati. Non ha portato ordine in Asia centrale e meridionale, ma esasperato discordie locali. Soprattutto ha banalizzato la guerra, ovunque: quando la superpotenza l’adopera come una delle tante opzioni e non come l’ultima, tutti precipitano nella rivalità mimetica. Così fa il Pakistan, per proteggersi dall’India e dalla sua influenza sull’Afghanistan. Così l’Iran, per evitare attacchi Usa a partire da Kabul. Così l’India, che sospetta connivenze tra Pakistan e terroristi. Nei servizi inglesi sta facendosi strada l’idea che la parola stessa - guerra - sia stata rovinosa. Ha nobilitato criminali comuni, tramutandoli in belligeranti. Ha strappato le radici ai conflitti riducendoli a uno scontro planetario tra società del terrore e del consenso, scontro teorizzato da Philip Bobbit e criticato da David Cole sulla New York Review of Books: come se il terrore fosse un valore attraente, paragonabile al comunismo nel XX secolo. Nell’ottobre scorso, sul Guardian, Stella Rimington, ex direttore dei servizi interni inglesi, ha detto: «Spero che il futuro presidente Usa smetta di parlare di guerra al terrore». La reazione all’11 settembre fu sproporzionata, l’erosione delle libertà civili «non necessaria, controproducente»: la guerra «fu un errore perché fece credere che il terrorismo potesse esser debellato con le armi».
Continua ...
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