Evidentemente a Giorgio Napolitano le cose italiane debbono apparire più gravi di quanto non appaiano agli oppositori dell’attuale regime di governo, se con un intervento giudicato fra i più alti del suo primo triennio di presidenza ha scavalcato saggi di politologi, libri bianchi di partito, articoli di studiosi e di giornalisti non iscritti alla charitas del potere, e ha ritenuto di dover personalmente ristabilire le regole del gioco e ricordare quello che si può e si deve fare per conquistare il futuro conservando un cuore democratico, e quel che non si può e non si deve fare per non affogare totalmente il paese nell’illegalità. Nei giorni scorsi, nella massima distrazione della grande stampa, la nostra vita pubblica è stata tutta un bulicame di cattivi pensieri berlusconiani e di durissime repliche dell’intellighentia a cavallo fra lo studio e la politica. Il capo del governo, che dopo il terremoto dell’Aquila e l’ebbrezza della popolarità sul teatro delle macerie, aveva attaccato il Colle che metterebbe l’autovelox contro i suoi decreti-omnibus, la Corte costituzionale perché annulla le leggi da stato etico approvate in nome della bioetica, il parlamento perché deputati e senatori pretendono di fare leggi e di votare anziché delegare i loro capiufficio a votare da soli i decreti del governo, i magistrati perché indagano se nel partito del cemento (pilone del blocco sociale della destra) ci siano state responsabilità per la città di sabbia che ha sepolto 300 persone, i media perché si ricordano (qualche vota) di fare il loro mestiere di contropotere invece di cantare in coro le lodi del signore. Questo stravolgimento della Repubblica, stretta nella tenaglia del consenso plebiscitario per il leader e dello svuotamento delle istituzioni come conchiglie morte pronte ad ospitare paguri, dà l’ultima manciata di fertilizzante al terreno dell’illegalità, su cui nasce e prospera il Sultanato.
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