Una spiaggia da sogni infranti, dove si pratica il tiro al bersaglio e dove il mito dell’Italia tonica e gaudente del boom economico inizia lentamente a sgretolarsi. Su questo orizzonte, Luigi Tenco è Giuliano, un ragazzo triste, nauseato dal perbenismo e dalle bugie della società borghese. Spara a zero contro tutti, governo, famiglia, esercito, e soprattutto contro quell’illusione di ricchezza che non ha risparmiato nessuno: «Certo, il miracolo c’è, per i ricchi, ma quelli nascono miracolati». Il suo disagio lo spinge a parlare di suicidio come unica via d’uscita. Cinque anni dopo, a Sanremo, la finzione sarebbe diventata realtà, nel suicidio più clamoroso e discusso nella storia dello spettacolo italiano. Il film s’intitola La cuccagna, ha la firma di Luciano Salce che lo gira del ‘62 impuntandosi per affidare a un cantautore semisconosciuto il ruolo del protagonista. La storia, ideata dal regista con Alberto Bevilacqua, Goffredo Parise, Carlo Romano e Luciano Vincenzoni, è dedicata a «quelli che non ce la faranno mai». Una categoria di perdenti di cui fa parte Giuliano, interprete sullo schermo di tre canzoni, Quello che conta, Tra la gente e La ballata dell’eroe (scritta da Fabrizio De Andrè), ma anche Rossella, la giovane romana che cerca l’indipendenza in una giungla di truffatori e personaggi che vogliono approfittare di lei. Per il carattere profetico, per il ruolo così marcatamente autobiografico di Tenco, per essere stato il primo passo del compositore in una carriera cinematografica poi abbandonata, La cuccagna, in qualunque Paese del mondo, sarebbe diventato un titolo culto. In Italia non è andata così. Anzi. Il film viene riproposto per la prima volta, dopo un lungo oblio, alla prossima Mostra di Venezia, nell’ambito della retrospettiva «Questi fantasmi: cinema italiano ritrovato (1946-1975)», curata da Tatti Sanguineti e Sergio Toffetti.
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